In una Svizzera sempre più multireligiosa e nel contempo sempre più laica, la visibilità dei gruppi e delle persone che manifestano la loro appartenenza religiosa negli spazi pubblici è regolarmente oggetto di dibattiti. I due elementi più importanti che rendono visibile l’Islam in Svizzera sono la costruzione di nuovi centri islamici e l’uso del velo da parte delle donne musulmane.
La visibilità delle associazioni e dei centri islamici
Foto della moschea albanese di Wil/SG scattata durante la cerimonia di apertura del 13.05.2017, la cui costruzione è stata oggetto di lunghi dibattiti. La foto è stata fornita dall’associazione islamica di Wil (Islamischen Verein Wil). © CSIS
L’iniziativa per il divieto costituzionale di edificare nuovi minareti in Svizzera, lanciata nel 2007 e seguita dalla votazione del 29 novembre 2009, sono gli esempi più eclatanti delle tensioni sociali e politiche che sorgono quando le associazioni musulmane diventano visibili sul territorio elvetico.
Durante la campagna si sono infatti mescolate diverse argomentazioni: il timore per l’islamizzazione della Svizzera e i richiami alla preghiera ad alta voce; le persone che rappresentano una minaccia per la sicurezza pubblica; la questione delle donne e della loro uguaglianza o ancora quella del velo integrale.
A livello locale, inoltre, si discute regolarmente della visibilità delle associazioni nei singoli quartieri. Gli abitanti sono preoccupati per i fedeli che a volte arrivano in gran numero per la preghiera (soprattutto il venerdì o durante il Ramadan). I vicini si sentono disturbati dalle persone che rimangono radunate davanti all’edificio dopo il rito e parlano in strada. I residenti si lamentano dell’aumento del traffico e dei veicoli parcheggiati intorno alle moschee che ostacolano l’accesso ai negozi o alle loro case. I passanti si sentono minacciati da gruppi di fedeli che si presentano in qamis (tunica lunga e larga, in parte indossata dagli uomini musulmani).
La visibilità del velo
Il cosiddetto velo islamico, indossato da alcune donne musulmane, è sovente un tema oggetto di vive discussioni. È legato alla questione della visibilità religiosa, ma anche a quella dei diritti fondamentali, in particolare dell’uguaglianza tra uomini e donne o della libertà di coscienza e di credenza.
In Svizzera, questi dibattiti sono iniziati a metà degli anni 1990 in relazione a due casi verificatisi in ambito scolastico. Il primo caso riguardava Lucia Dalhab, insegnante in una scuola pubblica ginevrina, alla quale il Tribunale cantonale di Ginevra aveva vietato di indossare il velo durante l’esercizio delle sue funzioni pubbliche. Questo divieto è stato confermato nel 1997 da una sentenza del Tribunale federale e dalla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo. La decisione era motivata dal fatto che un insegnante non può rivendicare la stessa libertà di religione degli altri cittadini durante l’esercizio delle sue funzioni. I tribunali hanno infatti stabilito che quando si è in contatto con i bambini piccoli occorre osservare un dovere di riservatezza.
Il secondo caso si è verificato a La Chaux-de-Fonds nel 1998, quando il consiglio scolastico aveva vietato a un’allieva delle elementari di indossare il velo a scuola. Questa decisione era stata respinta dal Dipartimento dell’istruzione del Cantone e il Tribunale cantonale di Neuchâtel non aveva dato seguito alla questione. Tuttavia, l’epilogo del caso del velo indossato dalle allieve è stato scritto nel 2015, quando il Tribunale federale ha confermato il diritto delle allieve di indossare il velo, accogliendo il ricorso dei genitori di un’adolescente di un comune sangallese. Questi ultimi si erano infatti opposti al nuovo regolamento di una scuola che vietava alle allieve di entrare in classe con il capo coperto.
Da allora, il velo indossato dalle donne musulmane nelle istituzioni e negli spazi pubblici è stato regolarmente oggetto di dibattiti. Tra gli esempi si possono citare i casi di stage per le studentesse di medicina presso gli ospedali universitari di Ginevra, il rifiuto di naturalizzazione per il fatto di indossare il velo (Argovia), le cassiere in un negozio di alimentari (Vaud) e persino casi nel campo dello sport, per esempio quando, nel 2009, la federazione di pallacanestro della Svizzera tedesca Probasket ha chiesto ad una lucernese di origine irachena di togliersi il velo per poter continuare a giocare nel campionato nazionale.
Il velo integrale
A partire dagli anni 2010, il velo integrale è stato oggetto di dibattito. Dopo i Cantoni Ticino (2013) e San Gallo (2018), il 7 marzo 2021 la popolazione svizzera ha accettato con il 51,2% l’iniziativa del Comitato di Egerkingen che proponeva di vietare la dissimulazione del volto negli spazi pubblici. Dei 26 Cantoni svizzeri, sei hanno respinto l’iniziativa (Schneuwly Purdie & Tunger-Zanetti, 2023). Il Cantone che l’ha rifiutata in modo più netto è stato Basilea Città, seguito da Zurigo, Ginevra, Berna, Grigioni e Appenzello Esterno. L’attuazione di questa iniziativa avverrà attraverso una nuova legge e non attraverso la modifica del codice penale. Nell’ottobre 2022, il Consiglio federale ha presentato al Parlamento un progetto di legge. La futura legge stabilisce il quadro di riferimento, le eccezioni e le sanzioni.
Nel 2016, il Comitato di Egerkingen (che aveva anche lanciato l’iniziativa popolare “Contro l’edificazione di minareti”) aveva iniziato a raccogliere le firme per presentare un’iniziativa federale che chiedeva il divieto di dissimulare il proprio viso negli spazi pubblici. E solo un anno dopo aveva già raccolto le 100’000 firme necessarie. Secondo l’argomentazione del Comitato, la dissimulazione (volontaria o forzata) del viso non è compatibile con la coesistenza in libertà. Dietro il divieto di indossare il velo integrale ci sono diverse voci politiche e civili: persone per le quali l’Islam è una minaccia all’identità nazionale; persone che promuovono una società laica e sostengono la necessità di limitare tassativamente la religione alla sfera privata; altre che difendono i diritti delle donne e che vedono nel velo integrale un attacco alla loro dignità e la prova della loro sottomissione all’autorità di un uomo.